venerdì 4 novembre 2011

"A dangerous method" di Cronemberg


Amo Jung, il medico che ebbe il coraggio di allargare i territori della psicanalisi all'alchimia e alla religione, e amo Cronemberg, un regista profondamente innamorato dell'uomo e delle sue contraddizioni.


Seppur non originale come altri titoli della sua filmografia, "A dangerous method" ha più di un merito: intanto racconta le psicologie e l'intreccio esistenziale di tre figure fondamentali per la società occidentale attuale con una fedeltà biografica e una profondità di spirito inedite nel cinema. Inoltre descrive l'alba di un metodo (o meglio più metodi) di cura delle malattie psicologiche altrettanto importante per la nostra cultura contemporanea. Un metodo, quello relativo alla presa di coscienza del materiale non conscio, "pericoloso" perché espone i soggetti alle mareggiate dell'esistenza.


Ma forse il merito più evidente del film è la ricostruzione storica. È una ricostruzione che non si limita, come spesso capita nel cinema, alle scenografie e ai costumi. Cronemberg fissa sulla pellicola la psicologia del tempo, vincolata prima di tutto attraverso il linguaggio dell'epoca. Agli albori del novecento la fotografia inizia la propria adolescenza, il cinema non è che un neonato, radio, televisione e informatica sono strumenti fantascientifici. E quanto tale aspetto influisce sui rapporti tra le persone e sul modo di vedere il mondo? Moltissimo, sembra dirci Cronemberg. Non a caso i titoli di testa e l'intera narrazione del film sono punteggiati dal dialogo epistolare tra i protagonisti. Quella che molti hanno descritto come eccessiva "verbosità" è un aspetto centrale dell'opera: i turbamenti, le immagini oniriche e i conflitti tra le persone non passano attraverso le immagini filmiche sconvolgenti a cui un certo Cronemberg ci aveva abituato, ma attraverso il linguaggio fondamentale dell'epoca, la parola scritta.

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