sabato 12 novembre 2011

"Rivoluzionary Road" di Sam Mendes




Questo film, ambientato negli anni 50, è, almeno all'apparenza, un film anti-hollywoodiano, che mostra le pieghe più sgradevoli della vita quotidiana nella borghesia americana. Mendes aveva già trattato temi analoghi, con più senso di humour, in "American beauty".
Qui April coltiva il sogno di Parigi, di una terra lontana dove abbandonare i condizionamenti della società capitalistica occidentale, quella nella quale è immersa. 



Ma veramente cambiare città o nazione, lasciare il proprio lavoro, permette di essere liberi? O non è forse la libertà uno stato da realizzare a prescindere dalle condizioni esterne? Libertà dei propri condizionamenti, dall'illusione di essere quel corpo e quella mente che reagiscono agli stimoli esterni secondo la propria programmazione.

È proprio nel suo fatalismo e nell'assenza di una prospettiva più ampia che tale film risulta, secondo me, limitato e limitante. Provate a riguardarvi Todd Hayes in "Lontano dal paradiso" o, soprattutto, Terrence Malick in "The tree of life": il loro sguardo sullo stesso periodo storico ha ben altro respiro.

"Corpo Celeste" di Alice Rohrwacher




Il reggino e, più in generale, l'Italia, attraverso la prospettiva di una bambina tredicenne, il corpo che cambia, l'adolescenza alle porte, la cresima imminente. I primi interrogativi sul senso delle cose sono anche i più puri e disincantati: il film mette in scena, attraverso scene grottesche e un taglio neorealistico, una visione netta delle grosse contraddizioni tra spirito evangelico e Chiesa nel reggino (dove collusioni tra chiesa, politica, mafia si sprecano).




"Gesù è matto, arrabbiato, furioso"

Il vero miracolo, ci dice il regista alla fine, e che Marta, la giovane protagonista, sia ancora viva dopo quanto ha visto, capito e denunciato; viva come la piccola biscia rinvenuta sul lungomare ridotto a discarica, dove giovani locali vivono di stenti e furtarelli.

domenica 6 novembre 2011

"Cristo si è fermato ad Eboli" di Francesco Rosi




L'amaro reportage di Carlo levi nella "seconda Italia": quella contadina, quella del Sud, quella che preferisce i briganti (e i mafiosi) al padrone ricco e settentrionale che non li comprende e che si relaziona a loro solo per tassarli. 




Chiunque voglia capire meglio i diversi aspetti e le diverse anime del nostro paese, nonché i problemi governativi che ci portiamo dietro da decenni, farebbe bene a vedere questo film. L'opera è anche un bello scorcio del periodo tra le due guerre (1935): il contesto è quello della Roma mussoliniana e delle sue imprese in Abissinia attraverso lo sguardo "altro" di un paesino contadino del Sud, con i suoi rituali e i suoi personaggi (podestà, prete, donna peccaminosa, medico,…)

venerdì 4 novembre 2011

"A dangerous method" di Cronemberg


Amo Jung, il medico che ebbe il coraggio di allargare i territori della psicanalisi all'alchimia e alla religione, e amo Cronemberg, un regista profondamente innamorato dell'uomo e delle sue contraddizioni.


Seppur non originale come altri titoli della sua filmografia, "A dangerous method" ha più di un merito: intanto racconta le psicologie e l'intreccio esistenziale di tre figure fondamentali per la società occidentale attuale con una fedeltà biografica e una profondità di spirito inedite nel cinema. Inoltre descrive l'alba di un metodo (o meglio più metodi) di cura delle malattie psicologiche altrettanto importante per la nostra cultura contemporanea. Un metodo, quello relativo alla presa di coscienza del materiale non conscio, "pericoloso" perché espone i soggetti alle mareggiate dell'esistenza.


Ma forse il merito più evidente del film è la ricostruzione storica. È una ricostruzione che non si limita, come spesso capita nel cinema, alle scenografie e ai costumi. Cronemberg fissa sulla pellicola la psicologia del tempo, vincolata prima di tutto attraverso il linguaggio dell'epoca. Agli albori del novecento la fotografia inizia la propria adolescenza, il cinema non è che un neonato, radio, televisione e informatica sono strumenti fantascientifici. E quanto tale aspetto influisce sui rapporti tra le persone e sul modo di vedere il mondo? Moltissimo, sembra dirci Cronemberg. Non a caso i titoli di testa e l'intera narrazione del film sono punteggiati dal dialogo epistolare tra i protagonisti. Quella che molti hanno descritto come eccessiva "verbosità" è un aspetto centrale dell'opera: i turbamenti, le immagini oniriche e i conflitti tra le persone non passano attraverso le immagini filmiche sconvolgenti a cui un certo Cronemberg ci aveva abituato, ma attraverso il linguaggio fondamentale dell'epoca, la parola scritta.

giovedì 28 aprile 2011

Itaca
















"La gente libera, non gli schiavi, formano una comunità"  
Antony De Mello

sabato 26 marzo 2011

La famiglia in ANIMAL KINGDOM di David Michôd e THE FIGHTER di David O. Russell


Ho visto due bei film che hanno qualcosa in comune.
Il primo, ANIMAL KINGDOM, è il racconto di un ragazzo di Melbourne: morta la madre (per overdose), va a vivere dalla nonna e dagli zii, criminali dediti a rapine, spaccio, omicidi. Suo malgrado, il giovane si trova coinvolto in una guerra di quartiere tra la famiglia e la polizia.


Il secondo, THE FIGHTER, racconta la storia di un pugile e della sua (numerosissima) famiglia: il ragazzo è allenato dal fratello, una leggenda della boxe ormai devastata dall'abuso di droghe, e ha come manager la madre, una donna tanto forte quanto incapace di separarsi dai figli. I problemi sul ring andranno affrontati per forza assieme a quelli familiari.


Entrambi i film raccontano storie di famiglie numerose e devastate, guidate da madri scaltre e iperprotettive, nelle quali la fedeltà agli altri membri del "clan" vale molto di più del rispetto verso chi ne sta fuori. Inoltre i protagonisti sono giovani membri della famiglia, che in qualche modo prima osservano e poi, crescendo, agiscono, determinando il destino della famiglia stessa.

I film sono diretti da registi giovani e molto bravi, che raccontano con uno stile diretto e coinvolgente storie tratte da vicende realmente accadute. Si tratta di film indipendenti che travalicano il genere a cui sembrerebbero appartenere: Animal Kingdom è un gangster movie, una storia di criminalità, The fighter è un film sulla boxe, il biopic di un boxeur. Allo stesso modo, però, entrambi sono drammi umani che ci parlano della famiglia e dell'influenza che questa esercita su di noi, della sofferenza in cui siamo impantanati e da cui cerchiamo dolorosamente di uscire.
Consigliati entrambi.


PS: Non posso non  sottolineare la straordinaria performance attoriale di Christian Bale nella parte del fratello in The fighter. Si tratta di un personaggio complesso, pieno di sfumature, sempre al limite, capace di follie e di grandi slanci di cuore. Bale, come sempre, non si risparmia e ci regala grandi emozioni.

domenica 13 marzo 2011

Black Swan di Darren Aronofsky



Nina (Natalie Portman) sogna di essere scelta per interpretare il ruolo principale nel balletto de Il lago dei cigni di Tchaijkovskij. In nome di una perfezione tanto cercata quanto abbruttente, la ballerina comincia ad essere ossessionata dal proprio lato oscuro, tanto più invadente quanto meno accettato. 
Il tema della doppiezza dell'animo umano trova in questo script un buon mezzo per esprimersi in molte delle sue sfaccettature. Aronofsky gioca infatti sui contrasti cromatici e tematici tra bianco e nero, sui riflessi, sulle false percezioni, sulla lacerazione di un corpo che parla chiaro, al di là delle illusioni della mente. La macchina da presa non molla mai la protagonista, che è il centro della percezione falsata attraverso cui viviamo l'asfittica esperienza di una persona che rifiuta intere parti di se stessa. Il coreografo-regista dello spettacolo (Vincent Cassel) coglie la profonda rigidità della talentuosa ballerina: "Se cercassi solo il cigno bianco la parte sarebbe tua. Ora mostrami il cigno nero!". E fa di tutto per stimolare gli istinti primordiali della fanciulla, ormai ottenebrati dal rigido controllo che questa ha imparato ad esercitare su di sè da una madre frustrata, asfissiante, perfezionista. Purtroppo, come la psicologia analitica insegna, il percorso di integrazione delle diverse componenti del Sè non è lineare, nè tanto meno indolore... ;)


Ma è veramente un bel film?

Il film è attuale: parla dell'ossessione per la perfezione che caratterizza l'intera società occidentale e che rifiuta intere parti dell'essere umano in nome dell'efficienza e di una presunta eccellenza. Lo fa attraverso uno spettacolo visivamente attraente e molto ben recitato.
Tuttavia, nel guardarlo, mi sono sentito offeso dalle poche possibilità che il regista lascia allo spettatore di interpretare quanto mette in scena. Il film non riesce ad essere ambiguo come vorrebbe. E' chiaro dall'inizio alla fine che la protagonista è violentata da forze che le appartengono e non dalle colleghe ballerine. I personaggi, in generale, sembrano pedine di un gioco studiato a tavolino. Sono tutti bravi (in particolare la Portman) ma tutti, evidentemente, maschere. Nina, che dovrebbe essere il personaggio più approfondito, rimane una figura in balia della prevedibile sceneggiatura. 

Dove ci porta la filmografia del nostro Aronofsky?

L'escalation allucinatoria messa in scena nel film non porta da nessuna parte. Lo sappiamo sin dall'inizio. Questa ci ricorda il gioco di "Requiem for a dream", dove la dipendenza dalle droghe e dalla televisione non prevedeva alcun tipo di slancio umano. 
Siamo lontani da quella umanità che invece, è con piacere, avevamo scorto tra le rughe, le cicatrici e i muscoli gonfiati del "wrestler" Michey Rourke, nel film che positivamente impressionò Venezia nel 2008. Aronosfky, in quel caso, aveva saputo sacrificare un po' della perfezione formale e degli effetti visivo-narrativi che caratterizzavano la sua espressione, guadagnandoci in termini di intensità emotiva e  di apertura del film alla complessità e alle sfumature della vita. 
Purtroppo, e con rammarico, con questo "Cigno nero" torniamo allo schematismo, alla banalità, all'effetto fine a se stesso. Rimane una bella esperienza, ma nulla più.

venerdì 4 marzo 2011

HEREAFTER di Clint Eastwood




Uno tsunami come metafora dell'incertezza esistenziale


In questi giorni di sgomento per le catastrofi naturali che stanno colpendo il Giappone ho visto un film che si apre con uno tsunami. La visione di questa pellicola e la riproduzione di uno di questi "fenomeni" mi ha aiutato a comprendere meglio di che cosa si tratti e di quali danni possa arrecare ad una località/popolazione.
Ma non basta: il film utilizza lo tsunami per raccontare gli effetti che questo evento ha sulla psiche della protagonista... per spingersi al confine tra la vita e la morte.


Se non fosse stato per la firma di Clint Eastwood, non avrei mai visto "Hereafter" 


La locandina azzurra col faccione di Matt Damon mi ricordava i triti action movie americani. Il titolo, che in italiano significa "Aldilà", rievocava argomenti troppo complessi e impalpabili per un film diretto da un pragmatico californiano. La storia, per concludere, sembrava complessa e poco credibile. 
Tutti pregiudizi.
Gli stessi che, da anni, accompagnano il mio sentire ad ogni uscita di quello che abbiamo imparato a conoscere come pistolero nella "Trilogia del dollaro" o ammazza-cattivi nei polizieschi dell'ispettore Callaghan. Ogni volta, in sostanza, rimango sorpreso e favorevolmente impressionato dai film di Eastwood regista. Non fa eccezione questo "Hereafter".


Una struttura narrativa complessa

Il nostro ci presenta ben tre protagonisti e li fa muovere in quattro location differenti (Maui, Parigi, Londra, San Francisco). La determinata giornalista Marie, il solitario sensitivo George e il giovanissimo Marcus sono accomunati da un forte interesse nei confronti nella morte. Hanno tutti vissuto esperienze al limite: Marie è sopravvissuta ad uno tsunami, George ha subito una operazione al cervello che lo ha reso sensitivo, Marcus ha perso il fratello gemello in un incidente e sopravviverà a un attentato.

Attentati, catastrofi, morti improvvise e licenziamenti


Il mondo messo in scena da Eastwood è globale, interconnesso e molto pericoloso. Eventi imprevisti rivoluzionano le esistenze dei protagonisti. Esiste un nesso, non solo tra queste (i tre si ritroveranno al termine del film, in una spirale narrativa che li avvicinerà e unirà) ma anche tra la vita e la morte. I personaggi vengono spinti al limite e costretti a porsi domande, a cercare risposte su ciò che va oltre l'esistenza.
Non si tratta di un film religioso ma di un laico tentativo di raccontare i misteri dell'esistere. Eastwood, che da tempo si interroga sulla morte e l'assenza dei propri cari, si spinge qui molto oltre, dando alla luce un film che è, nel contenuto, un outsider. Lo è il racconto, incentrato di fatto sulla parapsicologia, e lo sono i protagonisti messi in scena, emarginati per la loro capacità di "vedere oltre". Lo è stato, del resto, lo stesso Eastwood, agli ultimi Oscar, dove proprio non poteva vincere con un film tanto strano.


Il solito, delicatissimo, modo di raccontare


Meno strano è invece il modo di inquadrare e raccontare del regista, sempre molto attento alla caratterizzazione dei personaggi e ai finali che, pur nella loro amarezza, lascino intravedere un fondo di speranza. Non posso che sentirmi di consigliare un film dove, nella prima mezz'ora, vengono presentati tre protagonisti con cui entriamo subito in sintonia e che abbiamo il profondo desiderio di seguire nelle loro peripezie. Chi, come me, non ha apprezzato l'ultimo film di Aronofsky proprio per la sua algida perfezione  formale e narrativa, che sacrifica inevitabilmente i personaggi, lo apprezzerà sicuramente (vedi http://scattincerti.blogspot.com/2011/02/black-swan-di-darren-aronofsky.html).


P.S. In "Hereafter" le sfumature sono molto più importanti di ciò che può essere descritto e raccontato: è per questo che ho avuto tanta difficoltà e un po' d'imbarazzo a scrivere questo pezzo.

martedì 1 marzo 2011

Il discorso del re di Tom Hooper





Non è un caso che "Il discorso del re" abbia vinto 4 statuette ai recenti Oscar, tra cui miglior film, miglior regia e migliore sceneggiatura. La pellicola è infatti un riuscito biopic di uno dei meno conosciuti ma più amati regnanti del Regno Unito, il padre dell'attuale regina Elisabetta II. Salito al trono poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, Giorgio VI diede grande prova di lealtà al proprio paese non fuggendo durante i bombardamenti su Londra del '40. Non è da escludere che sia proprio il ricordo di quegli anni eroici, in cui l'alleanza Anglo-americana (soprattutto) riusci a contrastare la minaccia nazista, uno dei motivi per cui l'Accademy ha candidato il film a ben 12 premi.

Tuttavia, sono più d'uno i meriti di questo lavoro

"Il discorso del re" racconta allo stesso tempo ben tre storie: una personale, una nazionale e una "mondiale". Nell'inquadrare il dramma personale, legato alla balbuzie, del Duca di York, futuro re d'Inghilterra, il regista pone l'accento sul tema dell'utilizzo dei mass media a fini propagandistici nel primo '900. Siamo nell'epoca in cui le nuove  tecnologie della comunicazione rivoluzionano il modo di fare politica e in cui i regnanti possono-devono relazionarsi col loro pubblico-popolo, guadagnandone il favore. Sono gli anni in cui, sfruttando tali possibilità, Hitler e Mussolini mettono in scena le loro picaresche parate e in cui la loro voce risuona nelle piazze, nelle case, nei luoghi pubblici, catturando intere nazioni sull'onda dei valori nazional-socialisti. Non è un caso allora che il film smascheri i cerimoniali politici e i discorsi ufficiali come messinscene teatrali: il futuro re d'Inghilterra ha bisogno d'aiuto! Non riesce a parlare in pubblico! Quale terapista migliore di un attore fallito, un dotato amante della recitazione, un logopedista improvvisato? Lionel, talentuoso e ardimentoso neozelandese, ha il difficile compito di guidare lo scomodo, insicuro, scettico Duca di York alla piena padronanza di se stesso e della propria voce. Per farlo dovrà entrare in intimità con l'uomo, o meglio il bambino, che si cela dietro al principe-re. Durante l'intero film il regnante è ritratto con ottiche grandangolari e inquadrature dai tagli irregolari: il suo disagio come uomo è comunicato dal talentuoso direttore della fotografia (Danny Cohenanche attraverso il linguaggio filmico. Solo quando il protagonista dimostrerà di aver padroneggiato le proprie paure il suo viso sereno e sicuro sarà inquadrato attraverso un'ottica lunga e non deformante.



Un film storico molto attuale


Il film riflette su molti temi. Eccone alcuni:
  • il rapporto tra due uomini e due classi sociali;
  • i complessi meccanismi diplomatici che regolano il passaggio di potere da un re all'altro;
  • un drammatico periodo storico (l'avvento della Seconda guerra mondiale);
  • le influenze che le innovazioni tecnologiche hanno sul modo di fare politica;
  • il potere che una voce sola, ben amplificata e diffusa, può avere sulle sorti di un'intera nazione e del mondo intero. 
E quale tema più attuale di quest'ultimo in questi giorni, in cui l'amplificazione di milioni di voci con l'ausilio dei social network sta rovesciando decennali regimi dittatoriali in tutto il Nord Africa? Sono passati poco più di settant'anni dall'epoca descritta nel film e la storia ci sta già proponendo una nuova e decisiva prova del fatto che, al mutare delle tecnologie della comunicazione di massa, mutano i rapporti tra popolo e governanti. 
Gli autocrati di tutto il mondo farebbero bene ad accorgersene. 

domenica 27 febbraio 2011

Lourdes di Jessica Hausner




Ma che cos'è questo film? Di che tratterà? 
I luoghi dove, secondo la superstizione cattolica, accadono i miracoli suscitano in me un misto di  nausea e curiosità: la curiosità non è tanto per il mistero della potenziale "grazia divina", quanto per la psicologia umana, che spinge masse di individui a venerare un idolo per ottenerne dei benefici. 
"Lourdes", storia di una malata di sclerosi multipla che si reca a Lourdes nella segreta speranza che accada un miracolo, è un film dai toni assai neutrali, un ritmo lento, una camera prevalentemente statica e una sottile ambiguità di fondo.
L'idea è quella di lasciare spazio alla psicologia dei personaggi. La donna malata invidia le possibilità della sua giovane infermiera, che combatte la noia di vivere scindendosi tra tentativi di fare del bene al prossimo e abbandono ai piaceri mondani. Le anziane baciapile si interrogano e contestano la sensatezza di un miracolo avvenuto ad un malato piuttosto che ad un altro. Il prete si affanna a procurare risposte ai fedeli più dubbiosi. 




Il più grande valore del film, a mio avviso, sta nell'andare a sondare la relatività di quel complesso di condizioni che definiamo "felicità". Alla mancanza o meno di tali condizioni posso sommarsi sentimenti quali l'invidia, il confronto tra individui e percorsi completamente differenti, che avvelena qualsiasi tentativo di compassione e comprensione cristiana.
In tal senso non mi sembrano sensati i paragoni con Bunuel o Dryer, laddove il primo è acutamente, ironicamente spietato nei confronti dell'ipocrisia religiosa e il secondo un autentico indagatore del mistero più profondo della vita. L'austriaca Hausner, invece, che ha già fatto molti film ma di cui non ci è capitato di vedere nulla, sembra invece una versione decisamente più edulcorata dell'algido e spietato Hanake, suo compatriota.

giovedì 24 febbraio 2011

True Grit di Joel e Ethan Coen

 
 
 
Continua la narrazione dei fratelli Coen sulle molteplici facce degli U.S.A. 
Al loro caleidoscopico affresco della stupefacente "terra delle opportunità" si aggiungono infatti nuovi, potenti ritratti. Sto parlando di Rooster Cogburn (Jeff Bridges), un ex sceriffo crepuscolare e trasparente quanto solo certi personaggi di peckimpackiana memoria sanno esserlo, e di Mattie (Josh Brolin), una ragazzina 14enne grintosa, spavalda, determinata. 
E' proprio lei a dare vita all'azione cinematografica: l'avventura che ci racconta, mossa dalla precisa volontà di sterminare l'assassino del padre, è quella che marchierà a fuoco la sua esistenza. Mattie vuole con cieco ed efficentissimo furore l'inseguitore più spietato che il mercato le possa offrire e si imbatte in Cogburn: un personaggio scettico, alcolizzato, dal passato fosco, i modi rudi e un futuro tutt'altro che limpido (assolutamente da ascoltare la voce originale!). I due si muovono in un ambiente brutale, oscuro, nero nell'anima (lo stesso descritto efficacemente da McCarty nel suo western "Il buio fuori", da cui i Coen hanno tratto "Non è un paese per vecchi") dove buoni  e cattivi sono indistinguibili allo stesso modo in cui vita e morte si intrecciano senza soluzione di continuità. Mattie, che difetta solo d'esperienza, non si rende bene conto che seguendo la cieca volontà di vendetta sta definitivamente abbandonando la propria fanciullezza per immergersi a piè pari in questo mondo rude, spietato, dove "uccidi o vieni ucciso".
Il film è una avventurosa, divertente e al tempo stesso oscura cavalcata nel mondo del selvaggio West, tutta da godere. Trasuda della passione che i Coen hanno per i propri personaggi sebbene, a mio avviso, abbiano concentrato tutto il loro ardore sui due caratteri suddetti, lasciandone altri ai margini (come il funzionale ma meno significante LaBoeuf, interpretato dal troppo spesso monocorde Matt Damon).
E' un film che mi sento calorosamente di sponsorizzare a chiunque abbia il gusto per le storie e con cui i Coen tornano, per tutti i fans che ne avessero sentito la mancanza, su un territorio meno "metafisico" degli scorsi due film: qui, ciò che conta prima di tutto, è raccontare con gusto.



La scena che mi è rimasta più impressa

La spossante e angosciante cavalcata con cui Cogburn cerca di salvare la vita a Mattie: qui l'ex sceriffo dimostra tutta la sua complessità (si danna per salvare qualcuno, lui che mai esita ad uccidere) e tutto riporta alla mente le storie dove ci si muove tra vita e morte, come i miti di Orfeo/Euridice e le traversate di Caronte.